Il quartiere che Catania ha quasi dimenticato ma che racconta come tutto è cominciato

A Catania, Caratabia è una delle zone più antiche e dimenticate. Tra vicoli e memorie, svela come nacque la città moderna.

14 dicembre 2025 12:00
Il quartiere che Catania ha quasi dimenticato ma che racconta come tutto è cominciato - Foto: Davide Mauro/Wikipedia
Foto: Davide Mauro/Wikipedia
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Nel cuore antico di Catania, in un’area dove oggi il rumore del traffico si mescola a quello delle botteghe, si nasconde Caratabia, uno dei quartieri più antichi della città.
Il suo nome suona strano, quasi arabo, e infatti lo è davvero: deriva da Qar‘a ṭabya, un termine che si ritrova in antiche carte medievali e che probabilmente indicava un piccolo villaggio agricolo sorto fuori dalle prime mura cittadine.

Un tempo qui scorreva un piccolo corso d’acqua, e tutto il quartiere si sviluppava attorno alle vie strette e ai cortili dove si intrecciavano voci, mercati e mestieri. Oggi restano pochi segni di quella vita, ma basta camminare lungo le stradine tra via Plebiscito e la parte più vecchia del centro per accorgersi che qualcosa, in quella pietra lavica annerita, ha ancora il sapore di un passato tenace.

Dalla periferia araba al cuore popolare

Quando Catania divenne parte del regno normanno, Caratabia cominciò a cambiare volto. Le case basse si moltiplicarono, i conventi presero posto tra gli orti e, con il tempo, la zona venne inglobata nel tessuto urbano.
Non era un quartiere elegante, ma un luogo popolare e vero, dove si incontravano marinai, artigiani, venditori di frutta, e chi arrivava dalle campagne per commerciare in città.

Dopo il terremoto del 1693, che distrusse gran parte di Catania, Caratabia rimase quasi intatta nella sua struttura, diventando uno dei pochi luoghi dove la città poté tornare a vivere in fretta. Da lì partì la ricostruzione, fatta di mani, di pietre e di voglia di rinascere.
Oggi quella trama di vicoli è in parte scomparsa, inghiottita da edifici più recenti, ma chi conosce bene la città sa riconoscere i resti di archi, basamenti e vecchie soglie che parlano ancora la lingua di un tempo che non c’è più.

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